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I
primi ricordi risalgono certamente alle prime fasi di apertura della superstrada
che lo costeggia; a quella visione, tanto simile a una carrellata cinematografica,
di un sipario di case che dilagano su uno strapiombo di tufo. Un campanile
su tutto come a rivendicarne il possesso e poi le case più vicine,
quelle sul bordo della colata, smozzicate a decine come in seguito ad
un terremoto, rovine di secoli.
Questa vista sfrecciante dal viadotto si nutriva, lentamente, nel suo
frequentissimo ripetersi, di un’affezione coatta, forse perché
gli abitanti, privi di complessi ed anzi orgogliosissimi, considerando
evidentemente la propria dimora un cantuccio sublime, avevano pensato,
essendo così esposti, di rischiarare l’insieme, strapiombo
e rovine, di una calda batteria di luminarie, come ad evocare una festa
perenne. Che avranno da festeggiare, mi chiedevo, così chiusi sul
fianco di un precipizio, solcati notte e giorno dalle scie rombanti di
automobili e autocarri, con i viaggiatori distratti che distrattamente
li compatiscono? Eppure affezionava. Sarà stato perché quelle
povere case illuminate richiamavano la dolcezza dei presepi, sarà
stato per una specie di coraggio che traspariva dal voler restare proprio
lì, abbarbicati per dispetto. Fatto sta che, adesso, ci vivo.
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