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Sono
anni ormai che Campomarino profuma di fritto. Le zaffate delle patatine,
le pizzette e i calamari si mischiano ai fumi delle auto e all’odore
grigio del cemento. Dal passaggio a livello al mare la strada era una,
e in fondo al vialone la Conchiglia Azzurra era allora la porta del mare:
un piccolo ecomostro bonario e domestico, adagiato tra i condomini bassi
e l’Adriatico. Ora quel mostro a stento si nota, perché i
villini si sono mangiati i canneti e le piazze incolori si sono sbranate
le piste di sabbia che correvano nascoste tra le canne. Dalla Conchiglia
la spiaggia partiva libera e lunga e interrotta ogni tanto dagli scogli
che arrivavano a riva. “Oggi andiamo agli scogli” diceva ogni
tanto mia madre e, senza passare per Lido San Marco dove affittavamo ogni
anno l’ombrellone in prima fila, partivamo per la spiaggia col termos
e il pranzo pronto. E siccome era una specie di avventura al posto degli
asciugamano da spiaggia portava il telo militare, che se osavi sdraiartici
sopra ti lasciava addosso l’impronta vendicativa dei bottoni di
metallo che più lo distinguevano da qualunque prodotto tessile
di confort. Quando ci torno, quella spiaggia piena di anse, a tratti ingoiata
dal mare, mi sembra corrispondere più di ogni altra cosa all’idea
di un Campomarino rimasto solo nella mia mente. Una landa sabbiosa e desolata
bagnata dalla luce dell’Adriatico. Non ci sono solo i bagnanti,
ci sono anche i foggiani o gli albanesi dell’interno che usano quelle
spiagge come terreno di caccia e di pesca: e li vedi aggirarsi in mezzo
ai ruderi sbriciolati dalle onde con le canne da pesca e coi rastrelli.
Oppure coi secchi pieni delle cozze che hanno appena colto dagli scogli. |
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