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Castelbottaccio

 
La prima volta che andai a Castelbottaccio ero ancora studente di liceo. Erano i tempi che le riunioni tra amici potevano raggiungere facilmente le trenta persone in un attimo. Quella volta eravamo probabilmente più di quaranta, con un’età compresa tra i quindici e forse i venticinque anni. Arrivammo alla spicciolata in questa bella casa di campagna che un’amica del posto aveva messo generosamente a disposizione, con una quercia davanti e le panchine di pietra sotto gli abeti. Piccoli gruppi si formavano e ridevano, si rincorrevano, urlavano, qui e là si facevano discorsi seri e persino politici, seduti in cerchio sugli aghi di pino, come gli indiani. Fu una giornata perfetta, e conservo il ricordo come di una organizzazione impeccabile, con tante cose buone da mangiare, da bere e fumare. Pareva dominare una felicità larga, acquitrinosa, come di libellule su uno specchio d’acqua d'estate. Sarà stata la gioventù, forse i tempi storici che vivevamo, quella storia di cui allora credevamo di possedere le chiavi e il rimedio.
In realtà le cose stavano già diversamente. Quella stessa giornata avrebbe visto finire un gruppo di amici con la macchina fuori strada, i giri di persone erano abbastanza chiusi, l’organizzazione non c’era per niente e tutta la giornata era stato un continuo casino, con gente che andava e veniva con l’unico intento di approfittare di un po’ di ospitalità e fuggir via al primo segno d’impegno.
Eppure mi resta la convinzione, probabilmente errata, che quella apparente freschezza, quella compagnia leggera e festante ma non priva di intenti e progetti, non l’avrei mai più vissuta con tante persone tutte insieme.

 
                         
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Castelbottaccio particolare        
           
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