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Bonefro
è la strada dritta e sinuosa che va dagli zingari. È il
luogo del passaggio, l’ultima tappa, il respiro forte e lungo prima
di immergersi nelle vite malinconiche e dolci dei rom di Santa Croce.
È qui che si prende fiato, che con la scusa di bere un caffè
si va al bagno dell’ultimo bar. A Bonefro restano la reticenza,
la timidezza, i pensieri e i guai personali prima di buttarsi nella calca
assordante di esistenze sconosciute. Da lì in poi smettiamo di
parlare delle nostre vicende e parliamo solo di storie zingaresche. I
commenti, i progetti e gli intenti sono continuamente intervallati dalle
lamentele, che rappresentano un modo come un altro per congedarsi da sé
stessi. La prima volta che siamo passati per Bonefro diretti a Santa Croce
Antonio, che allora a malapena conoscevo, ha detto: «tra dieci anni
questi non ci sono più». E si riferiva agli anziani con i
capelli d’argento e le facce di cuoio che camminano ai bordi dell’asfalto
verso il tabacchi, il garage, la terra. Da allora quando passiamo di qua
gettiamo veloci gli occhi nel passato e dimentichiamo il futuro. Ma Bonefro
è anche il paese di quella cena col tavolo affacciato sul crepuscolo,
un’estate di alcuni fa. C’era anche il falegname che parlava
e parlava, ma la sua vita ce l’aveva scritta nelle mani. |
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