|
C’era
questa superstrada, stesa come un tappeto ai piedi di Morrone. Se facevi
la vecchia via potevi costeggiarla con lo sguardo finchè, d’improvviso,
all’uscita di una galleria, si interrompeva nel vuoto dei campi
come se fosse stata tagliata con un coltello. Non c’era niente che
facesse pensare alla solita, estenuante agonia burocratica che aleggia
sui cantieri rugginosi disseminati tra poderi e faldoni ingialliti. No,
questa sembrava proprio l’opera compiuta, immaginata da qualcuno
che aveva guardato per tutti noi oltre il ciglio, prefigurando per questo
remoto midwest molisano una corsa interrotta: una rampa sul nulla, un
invito al suicidio, una installazione su grande scala per una mostra mai
aperta. Così mi piaceva pensare mentre salivo con Lillino verso
il paese. Ci attendeva un sindaco-operaio con gli occhi chiari, non avevamo
rapporti facili. Scendevamo tutti insieme verso un vecchio palazzo patrizio
in ristrutturazione, forse doveva ospitare il Comune, pieno di stanzoni
vuoti impregnati di acquaragia in cui le nostre voci risuonavano svogliate.
Una volta sono rimasto solo, il cielo si è fatto buio e sono rimasto
alla finestra per guardare queste nuvole nere addensarsi sulla vallata.
L’aria densa, profumata di erba e di sterpame, la luce stantia di
una lampadina nuda, un tuono molto lontano. Io pensavo ad altro. Volevo
essere altrove. Non mi dispiaceva, però, la tristezza così
concreta di quel momento. Dopo quella stagione che sembrava non finire
mai, dopo quei giorni di piccole violenze quotidiane, non sono più
tornato a Morrone.
Nessun rimpianto.
|
|