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Il mondo, l’arte, la provincia. | ||||||||
aprile 2009 | ||||||||
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Per la prima volta approfitto di questo angolo abbastanza remoto del mondo per parlare di questioni che non riguardano una serie di miei dipinti prodotti di recente, ma un argomento in verità al mio lavoro strettamente connesso. Mi riferisco alla politica culturale della mia terra, quindi a persone in carne ed ossa che abitano intorno a me e che anche per mio conto operano e fanno scelte concrete, progettando e mettendo a frutto il denaro pubblico. Chissà che non riesca ad ottenere, pur da questo piccolo nascondiglio da cui mi è permesso di lanciare una voce, almeno una qualche risposta alle domande che mi permetto di rivolgere alla classe politica e a chi, per essa, dovrebbe agire nell'interesse di tutti. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . |
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A
me, saltuario artista di provincia, la percezione della vita arriva come
sdoppiata: da un lato la realtà, che scivola via, lancinante e
inafferrabile insieme, senza più racconto e memoria. Dall’altro
una realtà fittizia, che si impone essenzialmente attraverso la
televisione, ma ormai attraverso i comportamenti – indotti da quella
– di tutti noi. Mescolata alla melma degli spot che pubblicizzano
prodotti utili solo a chi li vende, la narrazione disegna l’immagine
di un Ordine, esterno e interno, ottenuto al prezzo di occupare le posizioni
di dominio senza andare troppo per il sottile. Questo Ordine viene propagandato
come l’unico sistema in grado di proteggere le nostre vite, quindi
descritto come minacciato da entità più o meno aliene: terrorismo,
radicalismo, eccessive rivendicazioni di massa, invasioni di campo dei
poteri di controllo. Così è per il singolo: raggiunta una
posizione – non è importante se per meriti o scaltrezza –
la regola impone di mantenerla reggendo ad ogni urto, difendendo lo status
raggiunto esibendo proprio gli obiettivi contestati: ho il diritto di
essere qui perché ci sono arrivato. Anche in questo caso l’ordine
è dipinto come perennemente messo in discussione: dagli invidiosi,
dai poveri, dagli immigrati, dai diversi, dai sognatori.
Fuori,
nella realtà vera, aleggia la guerra, sempre più diffusa.
Essa ci coinvolge, ci invade, ci determina le scelte a lunga scadenza.
Si annunciano tempi di bisogno, di rese dei conti, di fallimenti definitivi.
Sono guerre dagli obiettivi occulti e inconfessabili, patrocinate da freddi
spostamenti di interessi e capitali lungo direttrici che incontrano la
carne umana e la maciullano. La
soluzione si conosce già, è legata alla terra, al suolo
che abbiamo sotto i piedi. Le comunità locali stanno perdendo il
contatto secolare con i loro territori, distruggono antichi saperi, gettano
via secoli di storia e bellezza accumulata a prezzo di immani sacrifici
e povertà inaudite, uccidono la loro memoria. Anche qui la tv si
fa complice di questo sradicamento ossessivo e illimitato, e confonde:
alla fine la quercia vale meno di una jeep, se non ci passo la taglio.
È obnubilamento, un errore di valutazione dettato dall’ignoranza
in cui siamo tenuti soggiogati. L’alternativa
esiste: è nella diffusione del sapere, nell’apertura, l’inclusione,
la condivisione della conoscenza, di tutte le conoscenze. Dobbiamo accedere
insieme ad una religione laica più alta, che proclama la convivenza
pacifica e consapevole come divinità principale. Occorre dunque lo sviluppo e la pratica di una nuova fantasia, ed essa è a portata di mano. Traccia comete di reti, genera ammassi stellari di saperi, produce raccolti di bellezza. È già qui, nell’energia dei venti e del sole, nella bit generation, negli occhi sempre pronti a sognare dei nostri ragazze e ragazzi. Fa capolino, ci ammicca. Elenca compiti per l’avvenire e per il nostro presente. Ricostruire la rete locale della comunità, costruirla meglio lì dove era male intessuta; ridargli smalto, spessore, orizzonte dove ha ceduto. Usarla per pescare lontano, raccogliere visioni, solleticare curiosità, aprirsi all’accoglienza. Qui, tra noi, a portata di mano. Nei volti di chi cerca una nuova patria, nei bambini dai mille colori. Nelle mele buone di un tempo, nelle case diroccate da rimettere in piedi e da sottrarre alle paranoie familistiche ed agli istinti selvaggi della speculazione; nei boschi abbandonati e ancora vergini, diceva il poeta. È ancora lì, è la nostra vita che ancora ci aspetta. Solo
con una politica trasparente e un’informazione puntuale e approfondita
una comunità è resa realmente partecipe del proprio destino.
Basta questo per sapere se si è governati da persone oneste o da
un manipolo di aguzzini avventurieri: verificare quanto è libera
l’informazione e quanto è realmente aperto e trasparente
il dibattito tra le varie posizioni sulle decisioni che vengono prese,
soprattutto in merito al territorio e all’utilizzo della spesa pubblica.
È il punto cruciale: chi sa deve mettere il proprio sapere a disposizione
degli altri; ogni sapere trattenuto o centellinato genera potere in chi
lo detiene o controlla e annulla le speranze di uguaglianza. Ecco perché
i giornalisti che raccontano verità di comodo per i politici di
cui sono servi sono i loro complici più spietati: essi, mentre
se ne appropriano e le distorcono, derubano i propri concittadini della
memoria e della storia che questi incarnano e cui avrebbero diritto, senza
le quali nessuna identità, consapevolezza e progresso sono possibili. Se
dunque l’informazione libera e diffusa è la prima condizione
perché una democrazia possa esistere ed evolversi, mettendo in
circolo tutto il sapere e la conoscenza di una popolazione, il racconto
si fa visione, progetto aperto, con l’arte. Essa è in ogni
tentativo di comunicare mediante la bellezza, di dare un senso compiuto
alla propria esperienza. Ecco perché fare arte può assumere
innumerevoli forme: ogni vita ne produce una diversa, ad ogni livello
di tecnica e cultura. Ci
sono certamente molte idee dell’arte, forse tante quante le vite
delle persone, ed io ne parlo solo per la modesta esperienza che ne ho
fatto e ne faccio per mio conto. Alcuni balbettano appena, altri emettono
suoni curiosi, altri si atteggiano a dei, a signori di territori lussuosi
e impercorribili senza un’adeguata iniziazione. Tutti modi possibili.
Ma è cupo il mondo dove gli uni o gli altri decidono che cosa è
veramente l’arte o quale idea di essa merita di essere tramandata.
Anche il tentativo di un dilettante dovrebbe conservare un valore: esso
testimonia come minimo l’intento sempre rispettabile e prezioso
di comunicare qualcosa della propria esperienza umana e mortale, e solo
per questo meriterebbe di essere documentato e serbato nella memoria comune. Se l’arte, di qualsiasi livello venga prodotta, riveste per la comunità un valore così pratico e cospicuo come quello di far circolare le idee nella loro forma più bella e quindi di fungere da modello fertile per una visione migliore del mondo, allora la classe politica ha il dovere di renderla disponibile nella maniera più facile e accessibile. Su questi temi forse si impone alle amministrazioni locali almeno una periodica riflessione. A mio
parere un compito così speciale come la divulgazione artistica
non può limitarsi, come si è voluto fare nella nostra città,
all’affidamento di un unico spazio ad un gruppo di artisti. Questa
scelta, se non affiancata da altre soluzioni, può generare qualche
problema di prospettiva, che naturalmente ognuno può giudicare
se di maggiore o minore rilevanza. Mi sembra innegabile tuttavia la tendenza,
in un caso di questo tipo, ad un taglio culturale sempre più specifico
e caratteristico, quale solo un gruppo di intellettuali può scegliere
come proprio percorso poetico ed estetico ultradecennale, delineando al
tempo stesso una visione parziale e soggettiva, inevitabilmente auto-referenziale,
per quanto interessante possa essere nei risultati. Vorrei
comunque ricordare, a me stesso ma anche a tutti coloro che si confrontano
con il bisogno di esprimersi però non si sentono adeguatamente
sostenuti, che essere chiusi nella propria soggettività, o immersi
nella propria esistenza individuale non è una colpa ma una normale
condizione umana, la quale ha eventualmente di straordinario soltanto
lo sforzo, sempre altruistico e soprattutto raro, di voler restituire
di quella chiusa esperienza un possibile racconto, una speranza di bellezza. Ammetto
di rimpiangere, inaspettatamente – sarà la vecchiaia –
il ruolo svolto, qualche decennio fa, dalla galleria d’arte comunale
di Campobasso, che non interponeva in pratica quasi nessun filtro, tranne
quelli previsti dalla legge in merito al pubblico pudore. Tale ruolo era
svolto dall’amministrazione con efficienza e semplicità,
oltre che a costo quasi zero, tanto che nei modesti – ma centrali
– locali (a disposizione di chiunque ne facesse richiesta) arte
amatoriale, artigianato e semi-professionismo, fino ai saggi scolastici,
dialogavano senza nessuna reciproca esclusione o precedenza, in una feconda
e direi divertente contaminazione. Il calendario era sempre stracolmo
e bisognava prenotarsi per tempo. Quello spazio era uno specchio sincero
e popolare di quale fosse la cognizione dell’arte della grande maggioranza
della gente, di cui provo sinceramente nostalgia e che penso sarebbe certamente
da riproporre abitualmente. Ci si
apra allora al vociare dell’arte, al suo inaudito disordine, all’aria
lieve e incerta dei dilettanti; oltre agli spazi adibiti per le celebrazioni
dell’arte più professionistica e museale, se ne mettano a
disposizione altri, anche modesti, purché di facile accesso; ci
si serva parallelamente di diverse e distanti personalità critiche
scelte fuori dagli ambiti molisani per organizzare mostre originali e
di varia rilevanza; si propongano concorsi pubblici con premi puramente
simbolici aperti alla partecipazione di chiunque, che abbiano per tema
le problematiche e le caratteristiche del territorio e delle persone che
lo abitano; si approfitti dell’arte per far raccontare la nostra
storia presente, per quanto semplice e dimessa ci possa apparire: subito
diverrà migliore e più degna e più coraggiosa.
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