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Non
sono estraneo dal frequentare la “pittura di genere”
(basti pensare agli innumerevoli paesaggi dal vero o ai ritratti),
e devo aver dipinto (ma soprattutto disegnato) più di qualche
natura morta occasionale.
C’è da dire che, tra i paesaggi dal vero, gli Angoli
del Molise non sono niente altro che delle nature morte giganti,
accatastamenti di oggetti in quell’ordine apparentemente casuale
ma eminentemente affettivo che solo nelle più intime prossimità
dello spazio privato si può rintracciare e percorrere.
Forse, volendo, si potrebbero anche trovare delle analogie con il
ciclo più recente.
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Tuttavia
è la prima volta che decido di realizzare una serie specificamente
dedicata, e per chi mi segue era facile immaginare che, se mai lo
avessi fatto, i miei riferimenti sarebbero rimasti sostanzialmente
all’interno della pittura metafisica: da De Chirico, a Morandi,
fino al sorriso ineffabile di Savinio e magari via via perdendomi,
soprattutto, come al solito, nei cromatismi del fauve o cedendo ai
richiami della matericità informale, cui non so mai sottrarmi
completamente. |
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Basterà
aggiungere, credo, ma solo per la completezza documentale che si
deve a questo sconfinata memoria comune che è la rete, che
il titolo, “Nature (ancora) Vive”, oltre a cercare,
almeno nelle parole, di alludere al genere con qualche ironia, vuole
soprattutto indicare che, sin dal principio, le “nature”
ritratte non hanno sicuramente alcun riferimento all’esperienza
sensoriale, visiva, insomma “oggettiva” (come già
la pittura metafisica insegnava).
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Piuttosto
si allude qui all’ essenza intima, ad una qualche natura interiore,
al carattere precipuo di chi comunque, anche nelle vesti apparenti
di oggetto inanimato, vive in questo mondo, proiettando colori,
ombre, emettendo identità, affermando preferenze e distacchi.
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Direi,
se non temessi di parlare, come in effetti è, di cose che non
conosco, che gli oggetti, i frutti, i fiori dipinti non sono insomma
niente altro che “persone”, intese nel senso classico
di “maschere”, figure emotive, che praticano la realtà
e la informano, così come chi nasce è costretto a non
ignorarla ed a interagire con essa e con gli altri lungo le direttrici
tracciate dalla propria storia e dal proprio destino. |
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Ci si potrebbe
spingere persino a formulare un parallelo non so quanto ardito o
banale. Così come, da Giotto in poi, lo sviluppo e l’acquisizione
della prospettiva ha segnato il recupero della classicità
e della Storia (dall’Umanesimo al Rinascimento), nello stesso
modo la perdita del naturalismo prospettico e la rappresentazione
dello Spazio Simbolico (da Van Gogh fino alla Metafisica, il Surrealismo
e oltre) ha implicato la consapevolezza e la dilatazione dello spazio
interiore, dell’immaginario inconscio, fino all’approfondimento
metafisico novecentesco sulla stessa natura dell’Essere.
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Per
tornare al nostro piccolo, nell’economia di ogni dipinto, tali
“nature viventi” (finché, appunto, ancora lo sono),
si confrontano, trovano equilibri, muovono conflitti talvolta irriducibili,
o si adattano a inquiete convivenze, ma sempre nelle regole di uno
spazio definito, interno o esterno che sia. |
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Poiché
è appunto nello Spazio, in quella tridimensionalità
presentata nelle forme dell’allusione emotiva tipica della
pittura metafisica, che la materia, i corpi, le Nature Mortali sono
comunque gettati, dove rapporti e relazioni diventano misure, distanze,
posizioni determinate, per quanto mediate da una più o meno
rigorosa bellezza o dalla nitida trasparenza della metafora.
Come se, almeno in quegli angoli dove gli oggetti sembrano lasciarsi
contemplare indisturbati, l’enigma (delle nostre vite) potesse
diventare leggibile, ordinato e, finalmente,
coinvolgerci senza dolore.
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